30 settembre 2011

Sèla Minar


Sèla Minar, Sèla Minar
tu mi parli d'altri tempi
quando triste e solingo
io cercavo l'emozione

rinchiudendomi in un antro
a cercar la fatua gioia
tu mi davi ispirazione
del piacere d'afferrar

Cosa far, cosa far
la domanda è qui a bussar
Sèla Minar, Sèla Minar
che risposta tu puoi dar?

Non è bello li restar
in un antro angusto e buio,
voglio vivere la vita
e da li poter scappar

Sei la pena per chi dorme
e non sa che cosa far,
voglio allor da te fuggire
Sèla Minar, oh Sèla Minar

Mille idee da realizzare
un progetto, un sogno, un bene
tu invece non sai fare
che saper drizzare un pene

Non è bene, non è bene
io ho la vita nelle vene
tu non puoi darmela a bere
con il falso tuo godere

mille idee nella mia testa
un progetto, un sogno, un bene
questa qui è la vera festa
mica solo avere un pene ?!?

Minar Sèla, Minar Sèla
non avrai la mia sequèla
io non voglio in questa vita
abusar delle mie dita !!

(Ezio Spataro)


29 settembre 2011

U piritu


Proletari, storicamente ed etimologicamente, sono stati coloro che, come unica proprietà, hanno avuto soltanto prole, ossia figli. Con l’avvento dell’economia capitalistica la forza lavoro dei proletari  divenne una merce tra le tante. E, nei primi anni del capitalismo, prima che il movimento operaio prendesse coscienza del proprio valore, la forza lavoro era considerata una delle merci più  vili. Anche per questo i proletari erano costretti a prestare la loro forza lavoro per salari miserabili. 
Nella Sicilia dell’ultimo dopoguerra le condizioni di vita dei contadini poveri (li iurnateri) erano  peggiori di quelle dei proletari del primo capitalismo. L’economia  dell’isola girava  attorno al latifondo ed era ancora in uso l’aratro a chiodo del periodo neolitico. I latifondi erano amministrati dai gabelloti mafiosi che costringevano  i braccianti  (iurnateri) a lavorare da li stiddi a li stiddi per salari di fame  ( spesso anche solo per avere un po’ di grano da seminare nel proprio fazzoletto di terra) .  


Vincenzo D’Aversa,  il contadino che abbiamo già conosciuto e mostrato nei precedenti documenti, in quest’altra testimonianza racconta di un compagno  intento a faticare con “ermitu e faucia”, a “scuttare” il suo misero salario,  mentre viene colto da una urgenza fisiologica. Il contadino non  riuscendo a controllarsi, mentre era  impegnato nel suo duro lavoro,  emise  un "piritu" e subito dopo, per dissimulare il proprio disagio, esclamò ad alta voce la frase “A la facci du patruni!”.










La frase,  colta a volo dal gabelloto che controllava  a vista i lavoratori,  viene intesa immediatamente come un intollerabile  segno di insolenza  nei suoi confronti  oltre che come un pericoloso segno di  ribellione nei confronti di un consolidato sistema di potere. Ma l’arguto contadino, con grande abilità dialettica, riesce  a capovolgere il senso delle sue parole confondendo il gabelloto.


Franco Virga
Ezio Spataro
Ciro Guastella
Vincenzo D'Aversa

20 settembre 2011

Nzocch'è la morti ?


Dialogo sulla morte col poeta tagliapietre  Petru Fudduni 


Lu vivu dici a lu mortu

Petru Fudduni ca tagghi la petra
e di la vita tu fusti pueta
tu chi pruvasti l'umana sorti
dimmi allura nzocchè la morti


Lu mortu dici a lu vivu

Chi va pinzannu, ancora si vivu
troppu curiusu stu to dumannari
nun ti pigghiari allura currivu
penza a la vita chi ha di campari

ora lu cielu lu  vidi azzurrinu
picchì è luntanu lu to distinu
ma quannu arriva l'urtima ura
vidi lu cielu di milli culura

Quannu si mortu ti cancia la vista
vidi lu munnu di n'atra latata
lu tempu arriva nta la so crista
la vita tirrena è tutta passata

vidi lu mali e lu beni c'ha fattu
vidi li cosi cchiù torti e cchiù gritti
vulissi allura truvari riscattu
a tutti li mali chi foru nfritti

Mentri lu diavulu ancora ti mmita
e nturciunia pi tia li so corna,
tu penza sulu a campari la vita
facennu beni nta tutti li iorna

Fatti cchiù furbu, forti e tinaci
e di lu beni tu fatti capaci
picchì lu beni chi oggi unn'ha fattu
doppu la morti nun trova riscattu.

(Ezio Spataro)

11 settembre 2011

Avanti Popolo....

Il signor Vincenzo D'Aversa, oggi ottantaquattrenne,  racconta della Preghiera di Ringraziamento ai Padroni che i contadini del suo tempo dovevano recitare, per scongiurare la sorte dei cani digiuni:

 


ARCHIVIO DELLA MEMORIA :  LA VITA NEI FEUDI DELL’ULTIMO DOPOGUERRA


Erano gli anni del Dopoguerra quando il contadino Vincenzo D’Aversa si trovava con altri compagni a lavorare alcune terre amministrate dal gabelloto “Tanu Lareddu”. L’insieme di tutti i contadini che lavoravano alle dipendenze dello stesso gabelloto costituivano una cosiddetta “opera d’omini”. Il gabelloto a sua volta non era il proprietario della terra, ma colui che ne amministrava la lavorazione e i prodotti, e che rendeva conto ai padroni.

Nella sua opera d’omini D’Aversa si era distinto per laboriosità e velocità, pertanto il gabelloto volle conferirgli un ruolo di maggiore responsabilità, eleggendolo al rango di caporale.
Il caporale doveva mettersi nta ll’antu e dare il ritmo agli altri contadini, come una sorta di metronomo agricolo. In tal modo gli altri compagni seguendo il suo ritmo avrebbero lavorato con maggiore lena ed efficienza.





Una sera, dopo una giornata di duro lavoro sotto il sole, il gabelloto Tanu Lareddu chiamò il nuovo caporale D’Aversa, per invitarlo a dirigere la preghiera di ringraziamento. Tale preghiera, dalle false vesti religiose, era in realtà un atto di prostrazione ai piedi del padrone, nobile proprietario terriero, che il più delle volte viveva in città, lontano dai feudi che possedeva.
La preghiera, che non aveva nulla dell'autentica fede cristiana, aveva invece il sapore di una litania mafiosa che i gabelloti del tempo utilizzavano per sottomettere psicologicamente i contadini e assicurarsi i loro servigi. In quel sistema ancora feudale, il contadino, vero e proprio servo della gleba, doveva ritenersi graziato se qualche gabelloto lo assoldava nella sua opera d’omini; l’alternativa sarebbe stata la fame, una vita da cani, come la stessa preghiera evocava. Per scongiurare una tale sorte i contadini dell'opera d'omini dovevano ogni sera, al termine della giornata di lavoro, ringraziare il padrone per non averli fatti morire di fame.
Il sig. D’aversa, neo-promosso al rango di caporale , un giorno fu invitato dal gabelloto a imparare la preghiera, ma stavolta il gabelloto trovò pane per i suoi denti, in quanto, come potrete ascoltare nel video, D'Aversa improvvisò un bel fuori programma.

Ezio Spataro
Ciro Guastella
Vincenzo D'Aversa
Franco Virga


7 settembre 2011

Jacques de Molay

Ultimo Gran Maestro dell' Ordine Templare



















Studi recenti accreditano sempre più la teoria secondo la quale la vera causa della fine dei Templari fu dettata dalla volontà di impossessarsi del loro patrimonio, tesi peraltro già sostenuta da Dante Alighieri nel canto XX del Purgatorio, e si concretizzò attraverso una cospirazione indotta dal re di Francia Filippo IV il Bello. Infatti, mentre il re si trovava quasi in bancarotta e il popolo francese era esasperato per la grave crisi economica, accentuata dalla svalutazione della moneta ad opera del re medesimo, l'Ordine risultava proprietario di terre, castelli, fortezze ed abbazie: un tesoro immenso. Fu probabilmente il sovrano che, dopo aver tentato inutilmente di entrare a farne parte, incaricò i propri consiglieri di formulare delle precise accuse contro l'Ordine e di richiedere l'intervento del papato, da poco trasferitosi in Francia. Quando la Chiesa si rese conto dell'errore nella condanna e di essere stata manipolata, fu troppo tardi. È tuttora aperto il dibattito sulla fondatezza delle accuse di eresia formulate agli appartenenti dell'Ordine. I templari furono accusati di rinnegare Cristo, di sputare sulla Croce, di praticare la sodomia e di adorare un idolo barbuto, il Baphomet o Bafometto. Il maestro Jacques de Molay, che aveva ceduto inizialmente di fronte alla marea di accuse, si riebbe e rigettò le sue parziali ammissioni. Ma era tardi, il rogo accolse il maestro e i suoi dignitari e l'Ordine fu sciolto.





IACHINU  DI  MULE'

Sugnu Iachinu di Mulè
urtimu maistru di Timplari
pi curpa di lu papa e di lu re
nta lu rogu mi ficiru bruciari

Fuvi cummattenti n' terra santa
n'missioni di scacciari l'infidili,
Fulippu lu re Bellu di la Francia
mi fici di l'affrunti lu cchiù vili

Vidennu li ricchizzi a li Timplari
si misi ngiustamenti a caluniari
ca nuatri stannu dintra nta lu Tempiu
faciamu di la fidi vili scempiu

Diciva ca li monaci surdati
pirdemu di la cruci lu rispettu
ristannu tutti quanti assuggittati
all' idulu chiamatu Bafomettu

Fulippu di la Francia lu suvranu
si nesci di la testa lu so pianu
facennu l'urdinanza d'arristari
a tutti li gran monaci Timplari

Nuatri tra li peni e li turmenti
finemu nta li celli cunnannati
tra lacrimi torturi e patimenti
nni fici cunfissari sti riati

Arsi nta lu focu di na chiazza
muremu li Timplari forti razza
e fu crudili trama scuggitata
p'aviri la ricchizza cunfiscata

Fulippu di la Francia lu re Bellu
si potti sì sazziari la so panza
lu papa cchiù paurusu di n'agneddu
nun sappi cuntrastari la mattanza


(Ezio Spataro)