26 giugno 2012

Na catina


















Unu chi avi vagnati li baddi
e sapi bonu ca fradici sunnu
sapi curpìri darre li to spaddi
quannu tu parti e ti levi di ntunnu

Iddu t'arridi davanti e davanti
cu la so facci di veru birbanti
ma quannu voti e ci ha datu li spaddi
cu pagghia muffuta si consa li baddi

tu ta scantari pi chissu mutivu
nfinu a lu iornu ca ancora si vivu
picchì a stu munnu ci sunnu li fagni
ca cu li fissa si fannu li bagni

Megghiu spruvari lu farsu to amicu
ca ti scummetti si c'è cumminenza
ca nta lu tempu chi ti lu dicu
si c'è la malura lu vidi m'partenza

Sprovalu bonu e spiacci ntall'occhi
leggi chi luci cci cuva dda nfunnu
ca comu un fissa sicuru ci ncocci :
pari quatratu e t'adduni ch'è tunnu.

Avi la facci cu dda risatìna
ma sutta sutta è na vera catìna
quannu ti cali pi cogghiri puma
darrè lu to culu na luci s'adduma

è lu signali ca c'è na catina
nun senti lu scrusciu ma è ddocu vicina
prontu a sfruttari la to posizioni
già ti pripara na bedda gnizioni

Strata ch'è asciutta nun sapi pigghiari
di nta lu margiu ci piaci passari
è la natura di l'omu catina
fangu di iornu, di sira sintìna.

(Ezio Spataro)

16 giugno 2012

La Seconda Ode Sanicolense


















La battaglia per il teatrino

Or che il cuor lo sento altèro
canto un ode al triste fato
che si volse al menzognero
tal che son da lui gabbato

Dacchè venne il ManoCalda
il mio cor più non si scalda
io lo sento ancor più freddo
del vetusto e caro aceddo

Sicchè spero al rio futuro
al buon sindaco venturo
che si chiami al nome Ciro
e sia lindo il suo respiro

che se approda all'urbe scranno
dè venir quel giubilare
sarea sì il venturo anno
se si porta all'urbe altare

Che se ascende Ciro il Bello
si concede a me il Castello
giacchè aspiro al fortilizio
pei miei pupi e per lo sfizio

non bastommi un aula sola
giacchè il cor non si consola
li mei pupi come falchi
den volar negli ampi palchi

lo meo pubblico in affanno
dè lottar pei bigliettini
nella bolgia di uno scanno
per seder sui seggiolini.

Colpirò di mal ventura
l'assessor della cultura
che a chiamarlo il bolscevico
gliene importa il secco fico

la cui pampina si estesa
coprì pur lo nostro uccello
nella solidal pretesa
che ripugna il reo coltello

nella gomma fu infilzato
alla guisa di un pugnale
che sprecammo ancora fiato
nel discorso solidale.

(Ezio Spataro)

6 giugno 2012

La prima ode Sanicolense














Gaio Valerio Fasullo nacque a Makella nel 237 a.c. Apparteneva ad una famiglia agiata e ben nota: stando a quanto dice Svetonio ospitò in casa propria Filippo Scariano della Comare e Antonello della Provenza al tempo del loro proconsolato a Makella. Trasferitosi a Mediolanum si suppone intorno al 207 a.C., cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani, conobbe personaggi influenti e conosciuti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ardicula, Gaio Formigone e Cornelio Nepote Acquisito. Durante il suo soggiorno a Mediolanum ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno Matello, tale Sabella soprannominata nei carmi con lo pseudonimo di "Sabellina". Fasullo non partecipò mai attivamente alla vita politica, anzi voleva fare della sua poesia un ludus fra amici, fra compari, una poesia leggera e lontana dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo (a riguardo si veda il carme: "Nil nimium studeo, Francum , tibi velle placere / nec scire utrum sis albus an ater homo" "Non mi interessa affatto piacerti, Franco, né sapere se tu sia bianco o nero").
Il notevole estro poetico del Fasullo lo si può apprezzare nelle Odi Sanicolensi, scritte tra il 190 e il 185 a.c, in cui viene messa in scena un parodia della vita politica e sociale dell'urbe makelliana durante il quinquennio della tirannide Ribaudiana. La traduzione delle odi dal latino all'italiano risale agli albori del Novecento, dopo circa duemila anni di silenzio, ad opera di un traduttore "anonimo" di firma autenticamente anonima, conosciuto con gli pseudonimi del "Weblogghista" , del " Provopuscolare".


La tirannide Ribauduana

Oh Assessor della Cultura
portator della paura
a sentir tua propaganda
mi cacai nella mutanda

or che leggo il Bollettino
cado tosto nell'imbuto
che mi sento un gocciolino
qui nel mar Trinaricciuto

Nunziator dell'imparziale
la mia penna verga il vero
io sorveglio all'inguinale
municipio e ministero

lecco il cono e pur la cialda
se il gelato è tosto bello
che il parlar del Manocalda
mi tenette a buon martello

Chi di Fedro il favolante
di sperienza fu più aduso
rinfocilli qual pagante
di pecunia il pio Mancuso

che a seguir la canoscenza
fummo fatti a buon virtute
lui di Fedro e la sua scienza
disse massime più astute

Scrive tosto il Pè Perrone
nel suo articolo pacchiano
che alla guisa del torrone
gliela fece il Ribaudiano

Sempre bacio la santina
quando leggo a San Taormina
che nel giorno del Signore
prega sempre con fervore

tien gli anonimi commenti
nel suo blog di sane menti
e ti prende allor per pazzo
se gli rompi ancora il ....

Or mi calo il forte elmo
alla guisa del Guglielmo
la mia spada è già incrociata
sul compar della brigata

scaglio il tuono insieme al lampo
mieto vittime nel campo
la mattina in Redazione
faccio guerra e informazione

(Ezio Spataro)

1 giugno 2012

L'uccellino di Fifì


















Erano gli anni ottanta, precisamente il mese di settembre del 1987, quando i miei zii mi portarono in una vacanza di Marinesi nell'isola di Vulcano, forse c'erano anche alcuni francesi gemellati, se non ricordo male. C'era tutta la cricca dei miei zii, tutte le persone notabili del paese, quelli che contavano insomma, quelli che amministravano, quelli che organizzavano sempre schiticchi ovunque. Io ero un ragazzino timido e complessato, me ne stavo in disparte e stentavo a socializzare, osservavo come un alieno il comportamento degli altri e incameravo tutte le impressioni nella mia mente di ragazzino dodicenne. Tutti si divertivano in piscina, al ristorante in quelle serate allegre e scanzonate, poi come ciliegina nella torta c'era quella sagoma di Fifì Scariano che cantava sempre la stessa canzone a doppio senso, una canzoncina che divenne il tormentone di quella vacanza a Vulcano. La canzoncina era resa ancora più viva ed espressiva dalla voce di Fifì, dai suoi occhi allusivi; la sua voce magnetica ci cantava di come l'uccellino si andasse posando nelle parti più impensabili. Ed io dal basso dei miei dodici anni non riuscivo a comprendere come un uccellino potesse far ridere tutte quelle persone affermate e in carriera, che occupavano i posti notabili del paese. Era l'uccellino della comare ! Tutta l'attenzione era calamitata da Fifì che con dovizia di particolari raccontava dell'uccellino che si era posato sopra il boschetto, e guarda caso era lì che era andato a volare l'uccellino della comare, dopodichè partiva il coro di schiamazzi e risate. 
Quell'anno i miei genitori, che non erano mai stati in vacanza dall'anno delle loro nozze, mi incitarono a partire con gli zii, per farmi divertire, e per me fu un vero divertimento scoprire come un semplice uccellino potesse regalare momenti di spensieratezza e allegria a gente così rispettabile. E pensare che io dopo un bel po di tempo li avrei superati, scrivendo poesie sul tema della minchia e sulle cacate bucoliche. Ancora oggi il mio sguardo segue il volo di quell'uccellino e chissà dopo 25 anni dove andrà a posare l'uccellino della comare.


Tra canzuni e divirtuti
tra piscini e risturanti
tutti ddà s'avianu unciuti
marinisi e gemellanti

l'acidduzzu chi vulava
unn'egghè si ia pusannu
sempri allegru chi cantava
ogni tantu facìa dannu

Canta si Fifì Scarianu
e dd'aceddu ancora vola
comu aceddu d'un cristianu
cerca ciuri di scagghiola

vola allegru e beddu tisu
iddu sempri si fa amari
quannu dintra è beddu misu
è cuntenta la cumari

pizzulìa ca pari un picchiu
senza fallu un ci po stari
va circannu ancora sticchiu
l'acidduzzu a la cumari

iu nnuccenti a dudici anni
stannu mmenzu a virdi canni
m'attintava stu chiffari
chi ci vinni a la cumari

(Ezio Spataro)